Nina - tredicesima puntata

Sediamo tutti e tre in una pasticceria del centro, davanti a una porzione di zuppa inglese che occupa l’intero tavolo (come si fa a dire di no a una folletta che vedi per l’ultima volta e ordina una fetta di “truppa inglese”?). Non c’è lo spazio neanche per i piatti: a turno affondiamo il cucchiaio nella torta, senza parlare.
È il momento di tirare le somme, e nessuno ha il coraggio di incominciare. Cosa dire: per prendere i sogni, l’uomo in nero deve aver infranto tutte le biglie; ormai, dunque, non c’è più niente da recuperare. E quindi, non ha più senso neanche inseguire l’uomo in nero, chiunque egli sia: adesso, nemmeno lui potrebbe porre rimedio a questo disastro.
Ma i due hanno già capito perfettamente come sta la situazione. Mentre la folletta affoga il suo dolore nella crema all’amarena, il folletto ne approfitta per sfogare la sua rabbia, per scagliarsi contro i folletti con gli occhiali scuri e per attaccare un’invettiva furiosa contro la televisione.
«La televisione è un’illusione. Guardi la televisione e credi di essere sveglio, mentre in realtà il tuo cervello è spento, come se stessi dormendo. Ma magari! Almeno potresti sognare. E invece la televisione ti toglie anche questa possibilità, e ti offre i suoi, di sogni, illudendoti così una seconda volta, perché quelli sono sogni in scatola, non vanno bene per te, non ti appartengono, non sono tuoi; la televisione è tutto il contrario di ciò che sembra, il contrario di ciò che veramente è. Ma poiché è soltanto ciò che è veramente, ne consegue che la televisione è il contrario di ciò che è. Dunque la televisione non è. La televisione è il nulla».
Mi perdo con lui nel circuito di questo ragionamento, ma è evidente che non posso competere sul piano teoretico con un folletto. Quando smette di parlare, mi accorgo che della torta non rimane altro che la guantiera da leccare. In uno slancio di altruismo decido di lasciarla alla folletta, che comunque aveva già incominciato.
Per un po’ rimaniamo in silenzio, con gli occhi bassi. Poi la folletta si fruga nelle tasche del vestitino e ne tira fuori qualcosa, che mi porge. Una biglia.
«È un mio sogno di questi giorni» mi dice. «Dentro ci sei anche tu. Ho sognato che presto verrai a trovarci a Follettandia e faremo una grande festa e io preparerò una torta di gelato con cento gusti. Siamo contenti di aver passato questi giorni con te – continua, rimettendo in tasca la biglia – anche se non siamo riusciti a trovare le biglie. Ci hai fatto divertire tanto. Te lo volevo dire perché spero che questo possa farti felice; i sogni infatti hanno questo di bello: che spesso possono renderti felice anche se non si avverano».
Saggezza di folletti. L’altro annuisce con convinzione. Poi si gira verso la folletta e dice:
«È ora di andare».
Questa volta è la folletta ad annuire. Poi si alzano entrambi – per la prima volta osservo che i folletti sono più alti da seduti che in piedi – e mi vengono incontro per salutarmi. La folletta mi salta in braccio e mi bacia sulle guance, il folletto mi stringe la mano nelle sue. Li sento scivolar via e poi, quando riapro gli occhi, non li vedo più; vedo tutto confusamente, come sott’acqua. In effetti, sto piangendo.


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