Nina - dodicesima puntata

Come ho fatto a non pensarci prima? È quasi impossibile. A volte, ancora oggi, ci torno su, incredulo, e concludo che non è possibile. Mi fermo, nel bel mezzo di quello che sto facendo – una volta, quando facevo il cameriere da Flavio’s, mi sono fermato all’improvviso proprio al centro della sala, con un vassoio in mano e lo sguardo perso nel vuoto, fino a quando non è passato il capocuoco a darmi uno spintone gridando: «una mossa!», che a momenti mi cadeva tutto per terra – e mi chiedo: «come è possibile?». A volte lo dico a voce alta, a volte lo penso soltanto, a volte mi ricambio l’occhiata in uno specchio, o in una vetrina per la strada. Come ho fatto a non capirlo subito?
La televisione. Semplice. Ovvio. A volte, quando gioco ai cavalli, mi ritrovo a gridare, a corsa conclusa: «com’è possibile?», al che la gente mi prende per uno di quelli che perdono e non sanno rassegnarsi. E invece sto pensando ai folletti e alle facce che avevano la sera che tornammo a casa mia. La scena era questa: entro nella mia stanza e li trovo seduti sul divano, con gli occhi gonfi di lacrime. (Non chiedetemi come sia possibile che i folletti fossero rientrati a casa mia prima di me; è una delle cose che non sono mai riuscito a capire. Comunque, se qualcuno insiste a domandarvelo, accontentatelo, ditegli che i folletti possono anche attraversare le pareti, o che possono volare: sfrenatevi pure senza ritegno. In fin dei conti, se hanno la facoltà di realizare i propri desideri, chissà che non possano fare davvero anche quelle cose). Afferro subito il problema e mi rendo conto che bisogna intervenire immediatamente, bisogna sdrammatizzare, creare movimento, farli distrarre in qualche modo. E allora, senza stare delle ore a pensarci, dico la prima cosa che mi viene in mente:
«Perché state piangendo?»
La folletta non ce la fa neppure a girarsi, il folletto invece si fa animo e mi dice:
«È finita la Pepsi».
Sono senza parole. Non ho nemmeno qualche parolaccia adatta alla situazione. Ma la palla ora è passata a me, bisogna giocarla al meglio. E allora metto mano al portafogli e tiro fuori qualche banconota, che porgo loro invitandoli ad andare a comprare la bibita al bar ad angolo (dove i due sono ormai clienti). Me li tolgo dai piedi per dieci, forse quindici minuti. Ho bisogno di stare da solo per un po’, devo cercare di sintonizzarmi su una rete, non una qualsiasi, ma quella che ho in mente, fin da quando ho lasciato Follettandia. Alla fine, ci riesco. Guardo lo spettacolo che ho davanti e non riesco a credere a quello che vedo, il nome della rete, il simbolo, la trasmissione. Mi manca il fiato quando li sento rientrare, con la folletta che dice:
«C’era solo Coca».
Questo è il momento in cui gli eventi precipitano. Un po’ come quando segui un film giallo per due ore e alla fine arrivi a scoprire che l’assassino sei tu. Prendere tempo non ha senso. Allora dico:
«Ragazzi, venite qui». (Vorrei trovare qualcosa di meglio, ma come si fa a dire a un folletto: «coraggio, figliolo, devi essere forte»?).
Li faccio sedere sul divano, accanto a me, uno a destra e uno a sinistra. Dapprima sono increduli, proprio come lo sono stato io qualche minuto prima, strizzano gli occhi per mettere a fuoco meglio, avvicinano la testa allo schermo per leggere il nome dell’emittente, restano a guardare per qualche minuto e poi, come se si fossero messi d’accordo in anticipo, si mettono a piangere e a disperarsi forsennatamente, è una cosa che fa scoppiare il cuore. Io, che mi ero preparato un opportuno “suvvia, suvvia” già pronto ad accarezzargli i cappelli, non mi ritrovo più niente tra le braccia: si sono gettati entrambi a soffocare il pianto con la faccia affondata nei cuscini del divano.
Mondo TV. Un mappamondo stilizzato, schiacciato ai poli, disegnato solo con meridiani e paralleli, e una fascia all’altezza dell’equatore con la scritta: Mondo TV. Ecco la risposta all’ultima domanda. Fino ad ora sapevamo che non erano le biglie che l’uomo voleva rubare, bensì i sogni dei folletti. Non sapevamo ancora perché. Adesso lo sappiamo: per darli alla televisione. Ecco chi era l’uomo in nero, con quella strana spilla sulla giacca: nient’altro che un impiegato al servizio della televisione, qualcuno preoccupato unicamente di fare il suo lavoro: regalare sogni al pubblico. Perché nessuno può vivere senza sogni. E chi non sa sognare... non può far altro che rubare i sogni degli altri. O cambiare canale.
Sono seduto sul divano, continuo a guardare le immagini, e ormai mi sembra di riuscire ad andare al di là della superficie di quello che vedo: così, nella pubblicità di un’agenzia immobiliare, mi pare di scorgere la casetta sognata da due folletti che progettavano di andare a vivere insieme; oppure, nella torta a cento strati comparsa in un telefilm, indovino il sogno di un folletto golosone. Eppure quelli che vedo non sono più veri sogni, non è più possibile aspettare che si realizzino; quelli che ho davanti sono solo sogni infranti, sono solo immagini filmate di sogni che avrebbero potuto diventare reali. Non sono più sogni di folletto, da realizzare a Follettandia, alla casa dei sogni; e non sono neanche sogni d’uomo, da realizzare nel mondo. Questi sono solo sogni finti, promesse che non è possibile mantenere. Dopo poco, mi hanno già annoiato; e, infatti, spengo l’apparecchio.


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