Nina - sesta puntata

La risposta non mi arriva subito, ma dieci giorni più tardi, unitamente al dato di fatto che non abbiamo cavato un ragno dal buco. Io ho procurato loro tutte le spille che potevano anche solo vagamente assomigliare a quella descritta, gli ho fatto esaminare i marchi di diverse aziende, gli stemmi di club sportivi, bandiere nazionali. Non è servito. Una volta abbiamo anche individuato un tale che sembrava proprio quello che stiamo cercando; l’abbiamo atteso al varco in un vicoletto e, dopo averlo tramortito, l’abbiamo trascinato a casa mia e legato su una poltrona.
Dopodiché il folletto, un attimo prima che questi rinvenisse, mi ha detto:
«Adesso ci pensiamo noi a farlo parlare» e ha guardato la folletta. Appena l’uomo ha riaperto gli occhi, gli ha chiesto a bruciapelo:
«Dove hai messo le biglie?»
L’uomo, ancora frastornato, ha spalancato la bocca senza riuscire a dire niente. Al che i due gli sono saltati addosso e hanno cominciato a fargli il solletico, un solletico infernale, lui con le mani sulla pancia e sotto le ascelle, lei con le ciglia sul naso e sotto al collo. La vittima rideva e piangeva disperatamente, non avevo mai visto uno spettacolo del genere. Il folletto continuava a chiedere, inesausto:
«Allora? Dove le hai nascoste?» L’uomo non poteva rispondere niente, il suo riso era inarrestabile.
«Te lo chiedo per l’ultima volta, poi passo ai piedi: dove le hai messe?» Ma il tizio, ovviamente, non riusciva a fermarsi. E allora il folletto ha messo in atto la minaccia: gli ha tolto le scarpe e ha cominciato a solleticargli i piedi, sotto le piante, una cosa da far schifo.
È stato per miracolo che all’improvviso la folletta si è fermata e ha detto al compagno: «aspetta un attimo; ma questo qui non è lui, guarda, ha il naso tropo grosso». Sono rimasti qualche minuto a studiare la fisionomia del malcapitato, che nel frattempo era svenuto, poi si sono convinti di aver sbagliato.
Come potessero prendere delle sviste così grosse per me è ancora un mistero: forse per loro è difficile individuare le facce degli uomini quanto lo è per un italiano distinguere gli attori in un film coreano. A questo punto lo portate giù voi, avrei voluto dire stizzito, ma va da sé che il peso morto me lo son dovuto caricare io fino alla strada, dove l’ho rianimato con qualche buffetto (il tizio, ancora sotto shock, non ricordava niente, parlava a mala pena e stava malfermo sulle gambe. Ma almeno era vivo: quando l’ho visto ridere a casa mia ho temuto che a momenti crepasse sotto i miei occhi).
Ho bisogno di schiarirmi un po’ le idee (che rende di meno, ma suona meglio di “devo farmi una birra”). Lascio i folletti a casa e, per la prima volta da dieci giorni a questa parte, esco da solo. Mi allungo fino al bar in piazza (a quello all’angolo di casa non posso più andarci dopo l’ultimo scambio di battute tra il barista e la folletta, che qui sintetizzo:
«Vorrei un pelato».
Silenzio imbarazzato del barista. Vocabolario. «Un gelato». Occhiate intorno per controllare se qualcuno sta ridendo.
«Quanti gusti?» Prende un cono.
«Cento». Naturale.
«Prego?»
«Con la panna». La folletta guarda il cono nelle mani del barista, il barista guarda la folletta - tenendo il cono tra le mani. La quale si toglie il cappello e cerca di porgerlo all’altro al di sopra del bancone, dicendo:
«Meglio qui. In quel piccolo cono non ce n’entrano neanche dieci»).
Siedo a bere la mia birra. Poi capita una di quelle circostanze inverosimili, si direbbe impossibili – ma che càpitano – e che in seguito si ha difficoltà a raccontare – anche se sono capitate.
Succede così, che la persona che siede al tavolino alla mia destra si alza – e io, che fino a un attimo prima non avevo neanche notato che ci fosse qualcuno seduto al tavolino accanto, la guardo alzarsi, così, d’istinto, solo perché c’è qualcosa che si sta muovendo all’angolo dell’occhio – e mi lascia libera la vista al di là della vetrata del locale. Ed ecco, su di un autobus che sta passando proprio in questo momento, c’è Nina di profilo, non può vedermi – e neanche io la vedo veramente, è un attimo di distrazione, sono sovrappensiero, diciamo piuttosto che la registro, è un’immagine che va ad imprimersi da qualche parte dietro il cervello, chissà quante volte accade con facce di persone note o ignote ma che assomigliano a persone note o a nostri conoscenti la cui faccia è ignota a tutti ma non a noi. È una di quelle situazioni che in certi film francesi possono durare minuti interi. La sequenza è questa: la macchina da presa inquadra l’uomo seduto (sono io) di profilo, con la vetrata sulla destra e la visuale ostruita dalla sagoma dell’altro uomo seduto. All’improvviso l’audio viene sospeso, e al rallentatore viene ripreso da vicino l’uomo che si alza (ed in questa inquadratura compaiono: una mano appoggiata al tavolo, il bordo del tavolo, il corpo dell’uomo che si alza, ma non la faccia, che se no lo spettatore potrebbe distrarsi e domandarsi “Chi è quest’uomo?”); poi subito ci si sposta di nuovo su di me che guardo l’uomo alzarsi (a velocità normale). Adesso la camera si siede al posto mio (cioè: si situa nella mia posizione, all’altezza dei miei occhi, per far capire che io sto guardando qualcosa) ed inquadra la vetrata e quello che c’è oltre: proprio ora sta passando un autobus. Subito cambia la messa a fuoco; a scatti – come foto istantanee – viene ripresa Nina, dapprima a una distanza media, poi in primo piano, dopodiché torno ad essere ripreso io, insieme a tutta la vetrata, ma stavolta dal punto di vista dell’autobus, la camera scorre orizzontale sulla mia faccia stupefatta e rapita. Se un giorno girerò questo film giuro che il finale sarà questo: io salto sul mezzo in corsa, afferrando al volo con la mano un sostegno di quelli verticali, attorno al quale ruoto - facendo perno su un piede - fino a congiungere le mie labbra con quelle di Nina. Al termine di un bacio lunghissimo la guardo rapita dalla gioia e le dico: «è tutta la vita che aspettavo quest’autobus».
Ma per ora mi limito alla prima parte della sceneggiatura: mi catapulto fuori dal bar e mi metto a inseguire il pullman – non c’è un motivo, né un’intenzione precisa, è desiderio nudo – e non ho il coraggio di chiedermi: «cosa farò quando l’avrò raggiunta?».


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