Nina - seconda puntata

È tardi. Esco dalla vineria con le mani già in tasca. Non fa freddo, ma ho voglia di starmene rannicchiato il più possibile, da solo, continuando a pensare a Nina. Non ci provo neanche a smettere: anzi, insisto. Ripenso all’ultima volta che l’ho vista. Parlammo. Appena prima di andarsene, mi disse che le avevo rovinato la vita. Come se questo mettesse a posto le cose. Come se potessi farci realmente qualcosa. Come se fosse una spiegazione. Forse lo era.
Nina se n’è andata. Ma la rivedo ancora piangere, sento a ripetizione le sue parole («mi hai rovinato la vita») come se stesse lì a dirmele sempre di nuovo, in quello stesso attimo che non passa mai. La storia finisce qui, con me che dico: «buonanotte» e me ne vado senza voltarmi (che cosa dovrei voltarmi a fare? Non ho niente da dire). Ma il finale non mi piace. Me ne vergogno. E allora lo reinvento. Sono un maestro nell’inventare finali alternativi, mi piace da matti, li trovo stupendi. Il problema non è che non siano grandiosi; è che sono inventati. Nelle situazioni più difficile e importanti, non riesco mai ad ottenere nient’altro che questo: la speranza di un finale possibile, bello e pieno di fantasia. Come quello in cui la guardo negli occhi e le dico che mi ha convinto, che ci voglio riprovare, perché lei è la donna della mia vita – lo sappiamo entrambi. Qui lei mi guarda - vorrebbe sorridere ma è timorosa - e nei suoi occhi leggo che non aspettava che dicessi altro. Perché lei mi ama, proprio come me.
Smetto di sognare a occhi aperti e torno a vedere i miei piedi camminare uno davanti all’altro lungo la strada buia. Prendo ancora una volta la sua foto dalla tasca interna della giacca e mi metto a guardarla, fino ad arrivare a casa. Infilo le chiavi per aprire il portone; ma prima che la serratura possa scattare, vengo afferrato per il bavero, strattonato con violenza e sbattuto a terra. Perdo i sensi. Quando riapro gli occhi ci vedo ancora confusamente, c’è qualcuno attorno a me, riacquisto pian piano conoscenza, rendendomi conto che adesso mi trovo in un bosco sterminato, seduto sulle foglie, con una mano dietro la schiena che regge me e l’altra che regge la mia fronte, mentre sento delle voci dire:
«Non è lui».
«Non è lui».
«Ma sì, guarda bene, è proprio lui».
«No, non è lui. Non vedi? Non ha neanche la spilla».
Sono circondato da cinque o sei tizi in calzamaglia; alcuni hanno delle barbe foltissime, e portano tutti un lungo cappello a punta sulla testa. Non sono ancora ben sveglio, ma ci metto poco a capire che si tratta di folletti del bosco (che siano dei folletti mi sarà chiaro di lì a poco; al momento mi sembrano solo dei grossi bambini incappucciati). Da lontano avverto lo scroscio pacato di un fiumicello che scorre piano. Poi uno di essi dice:
«Non è lui».
E io mi riaddormento.


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