Nina - nona puntata

Alla giostra.
Sono entrambi già seduti, su due cavalli diversi, e il folletto, che ormai conosce bene il trucco, sta palpando il cavallo per vedere se reagisce.
Corro loro incontro con l’intenzione di dire: «basta con questa faccenda. Ne sono fuori. Spiegate a quegli altri che io non c’entro niente, e fatelo subito. Mi avete trascinato in questa storia senza preoccuparvi un solo istante per me, per quello cui andavo incontro a causa vostra, non vi siete fatti scrupolo di rischiare la mia vita pur di recuperare le vostre stupide biglie, senza pensare che anche se ci riusciste non sarebbero più le stesse di prima, perché sarebbero lorde del mio sangue» ma in realtà mi accontenterei anche di riuscire a dire qualcosa di meno esagerato, tipo: «basta così»; il fatto è che è mezz’ora che corro praticamente senza sosta, e quando raggiungo i folletti sono ormai senza fiato. Ci guardiamo a vicenda per qualche secondo, poi faccio appena a tempo a saltare su un cavallo che la giostra si mette in moto. Cerco ancora di attirare la loro attenzione, dicendo: «ascoltatemi un attimo», ma subito entriamo nel tunnel e ci separiamo, perdendoci di vista. A me toccano i pirati, almeno così mi sembra vedendo un omaccione barbuto in lontananza. A un’occhiata più fine mi rendo conto che invece mi è capitato il bordello gay: l’omaccione è la maitresse. Quando si dice una giornata no. Sono così imbufalito con la malasorte che, passando accanto a un pupazzo di cera, gli mollo un ceffone da far girare la testa, per accorgermi contestualmente che i pupazzi sono di metallo. Mi accascio dolorante sul cavallo e la fortuna mi arride per questo unico dettaglio: il cavallo è di legno.
Riapro gli occhi solo a giro finito, quando sento che la giostra si è fermata. Lancio uno sguardo esausto ma eloquente ai folletti, che significa: «portatemi a casa». Ma i due non si muovono. Ben saldi in sella, aspettano il secondo giro. Non ho scelta: salto sul cavallo della folletta ed entriamo insieme nel tunnel. Il paesaggio è desolante, cavalchiamo tra le macerie. Mentre sto per chiedere alla folletta: «perché c’è tanto accanimento intorno a queste biglie?» passa accanto a noi un sidecar guidato da un pupazzo con la faccia orientale. La folletta guizza a bordo e si allontana. Non può avermi sentito. Presto arriva un sidecar anche per me; subito la raggiungo, e ora procedo al suo fianco. Domando: «chi altro è interessato come noi al recupero delle biglie?». Ma il rumore delle motociclette stile anni ’40 è assordante. La folletta non può rispondermi altro che: «ah?» Poi la strada si biforca: lei prosegue dritto, io vengo fatto salire su un’automobile al posto del passeggero (mentre alla guida c’è un altro pupazzo con la faccia orientale. Complessivamente, non è che l’atmosfera sia tanto entusiasmante: le macerie si estendono a perdita d’occhio, qualche volta si aggiunge un cadavere sanguinante, ed è tutto una continua esplosione di bombe a mano - con relativo sollevarsi di nuvole di fumo). Comincio a capire che siamo in Giappone, durante la seconda guerra mondiale. Dopo poco le strade si ricongiungono e, nonostante sia proibito, prendo la folletta in braccio e procediamo insieme in automobile. Sono sfinito. Comincio a spiegarle che non mi hanno fregato, lo so che c'è qualcosa sul conto di quelle biglie che mi stanno ancora nascondendo, quando una sirena si mette a suonare all’impazzata e copre la mia voce. Almeno la folletta si sta divertendo, la vedo gioire come una bambina mentre si porta le mani alle orecchie tutta emozionata. Abbandoniamo l’auto e torniamo a cavallo: la Bomba è scoppiata, e noi ci stiamo allontanando verso le praterie incontaminate, fuori dalla città (sullo sfondo c’è il fungo che si espande). Cavalchiamo sulla prateria, sembra vero, io tengo le redini mentre la folletta sta aggrappata al collo dell’animale. Cerco di sussurrarle a un orecchio: «dimmi solo una cosa: non potete proprio farne a meno?». Ma, appena apro bocca, dall’alto piovono due maschere antigas che ci si appiccicano in faccia, per cui quello che ho detto suona più o meno così: «uhuhm uhuhm uhuhuhm: uhm uhuhuhm uhuhm uhuhm uhuhm?»
Mi sento soffocare, per fortuna siamo in dirittura d’arrivo: le maschere ci volano via e torniamo all’aria aperta, dove la giostra si ferma. Quasi per tutti. Perché, ovviamente, io vengo sbalzato di sella e mi ritrovo senza volere ad appoggiare con tutto il mio peso le reni sul pavimento. (Lo dicevo io che la galoppata mi era sembrata troppo realistica).
Gli ultimi sessanta minuti che ho vissuto sulla terra mi hanno letteralmente frantumato. E ora, per la disperazione, non guardo più in faccia a niente e a nessuno. I folletti stanno ancora in sella, uno accanto all’altro. Mi avvicino e pianto i palmi delle mani sulle teste dei due cavalli, dicendo:
«A casa».
Il folletto non si scompone, e mi risponde:
«Adesso proprio non possiamo».
Lo guardo da una distanza infinita, non avrei voglia di ascoltare le sue spiegazioni neanche se ce ne fossero di plausibili. Purtuttavia, lui interpreta la mia espressione come un “Perché mai?” e aggiunge:
«Non ho ancora completato la missione. Per guadagnare lo zucchero filato devo strappare almeno venti antenne marziane e, vedi - mi mostra il fascio di fili di gomma che tiene stretto in mano - me ne mancano ancora sei.
In quel momento le mie mani partono prima del cervello, estraggo le due pistole dalle tasche laterali dell’impermeabile e gliele punto addosso, una a testa. Poi mi ascolto dire:
«Andiamo ora».


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