Nina - decima puntata

Prima di andare avanti, accumulando altri punti interrogativi, dovrò spiegare com’è che mi trovavo in tasca quella pistola. Siamo seduti al tavolo di un bar, io ho chiesto un daiquiri (e il folletto pure); la folletta invece è alle prese con una coda d’aragosta alla panna che è quasi più lunga del suo cappello. Approfitterò quindi di questi pochi minuti di pausa per raccontare cos’è successo.
Mi avevano in pugno. Non avevo nessuna possibilità di sfuggire a quella trappola. Tutto era dalla loro parte: erano armati, e io no. Erano in tre, e io ero solo. Avevano la limousine, e io ero a piedi, avevano gli occhiali scuri... voglio dire: anche il dettaglio più insignificante giocava a loro favore. Era una partita vinta a tavolino. Impossibile quindi aspettarsi quello che è successo dopo. Ecco com’è andata: mi hanno portato in periferia, in un vicolo deserto, davanti a una porta di metallo arrugginita che si è aperta con uno stridio lancinante. Poi quello armato mi ha appoggiato la pistola alla schiena e mi ha detto:
«Salta».
È a Follettandia che vogliono portarmi, lo capisco subito. Non ho nessuna alternativa, e allora salto, perdendomi nel buio dell’antro in cui mi hanno spinto. Ma non ho bisogno di sentire le frasi successive («Ehi, hai sentito che rumore?» «Ci siamo sbagliati, questa non è una finestra su Follettandia») per accorgermi di aver sbattuto il muso contro una parete. Ma questo loro errore, e soprattutto il buio, torna ora a mio vantaggio. Mi faccio da un lato e, quando il primo folletto entra con la pistola spianata, gli balzo addosso come un felino e gli afferro il braccio che impugna l’arma con la mano sinistra, il polso gli sbatte contro la parete e la pistola – che la sua mano aperta lascia cadere – l’abbranco al volo con la destra, dando luogo involontariamente a un movimento circolare su me stesso che mi porta a ficcare la pistola dritto in bocca al folletto. Mi ritrovo a dire:
«Adesso restituitemi il favore». In un gesto solo gli lascio andare il polso e carico l’arma. «Tornatevene a Follettandia e non fatevi vedere più».
Li vedo fuggire attraverso il vicolo, dopodiché infilo la pistola in tasca e mi metto a correre nella direzione opposta. Il resto è noto.
E a questo punto si capisce anche un’altra cosa: che quello delle due pistole al parco giochi è solo un espediente letterario, un artificio verbale, un modo come un altro per creare una simmetria nell’immagine della giostra con i folletti a cavallo. In realtà, di pistola ne avevo solo una (l’ho detto: sono bravo a inventare).
Ma ora si rende necessario un mio intervento a tavola, perché temo che altrimenti la folletta resterà ad accapigliarsi con la pasta sfoglia per tutta la giornata. Quando le sottraggo il piatto per tagliare il dolce con coltello e forchetta, lei alza lo sguardo verso di me, mostrando la bocca tutta impiastricciata di panna fino al naso, e si mette a fissarmi, sbattendo piano le palpebre. Per lei questa con le posate è una procedura ignota, incomprensibile. E infatti, quando le restituisco il piatto continua a guardarmi, un’occhiata al dolce e una a me, come per chiedermi se si sta comportando bene.
Io, però, ho altri grilli per la testa. Data la situazione, è al folletto che pongo la sfilza delle mie domande, a raffica, le stesse che ho posto senza successo alla folletta nel tunnel della giostra. Lui mi guarda tranquillo, con le gambe distese una sull’altra sulla panchetta, finisce di sorseggiare il daiquiri e dice:
«Una cosa alla volta».
Ed ecco in breve quello che mi spiega:
“Quelli con gli occhiali scuri sono folletti come noi, che però adesso vivono ai margini di Follettandia. Prima stavamo tutti insieme, ora se ne stanno appartati. Perché a loro piace una cosa che a Follettandia non si era mai vista e che non piace quasi a nessuno: la televisione. Essi invece ne vanno pazzi. E la tengono sempre ad alto volume, dando fastidio a chi non la vuol sentire. Per questo se ne sono dovuti andare. (Quella delle cuffie è un’altra questione). Anche loro vogliono recuperare le biglie, ne fanno un punto d’orgoglio; ma poiché non possiamo cercarle insieme a loro, e continuiamo a farci concorrenza. Del resto, non è possibile lasciare a loro questa ricerca, perché quelli sono dei folletti molto pasticcioni e combinano un sacco di guai (il che spiegava - e sminuiva - il mio insperato successo nel vicolo). Cosa c’entra l’orgoglio? Le biglie erano state affidate a loro, e se le sono lasciate rubare. Dall’uomo nero. Che aveva detto: «vado a prendere le cuffie per la televisione» e invece è andato alla casa dei sogni, che era rimasta incustodita, ha messo le biglie nel sacco e se l’è svignata”.
«La casa dei sogni?»
Qui il folletto si impappina, guarda la folletta con gli occhi sbarrati, mi fa il verso («La casa dei sogni?») come se questo termine l’avessi inventato io, cerca di riprendere il discorso, poi si mette a farsi vento con le mani dicendo: «uff, che caldo». Ma mi accorgo subito che c’è qualcosa che non va, perché siamo a novembre. Poggio i gomiti sul tavolo e mi protendo in avanti, dicendo:
«Continua».
La folletta sta finendo di pulirsi con i tovaglioli di tutti e tre. Guarda l’altro, guarda me, e dice:
«Forse è meglio se ci accompagni a Follettandia».


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