Nina - quarta puntata

A questo punto direi volentieri di come sono tornato alla mia vita quotidiana, con i miei pensieri, i miei dolori, e di come ho passato il resto dei miei giorni per metà a cercare di dimenticare quell’episodio e per metà a cercare di convincermi che era stato solo un sogno. Ma mentirei. Perché la verità è che io ho aiutato i folletti a trovare quello che cercavano. Nulla mi obbligava, sia chiaro: un folletto non può obbligare un uomo a fare qualcosa che non voglia. Ma è certo che può rendergli la vita veramente difficile. Altrimenti non mi sarei mai sognato di attraversare per la terza volta quella finestra insieme a due folletti, seduti su di me, uno per spalla.
Ma ora ci arriviamo. Il mio primo rientro nel mondo è stato morbido, senza scossoni. Non sono spuntato molto lontano da casa, e fu a casa che ad ogni modo cercai di ritornare. Sennonché – e giuro che non avevo proprio voglia di telefonare a chiccheffosse – nel passare accanto a una cabina telefonica vengo strattonato di nuovo fino a caderci dentro. Di nuovo un lungo attimo di buio pesto nel quale non saprei dire se mi muovessi o stessi fermo quando ecco che mi ritrovo a guardare la casa di Follettandia dal basso verso l’alto, da una posizione orizzontale a partire dalla quale ognuno dei folletti che ho intorno sembra un unico grande cono rovesciato. Non ho il tempo di adirarmi che uno di essi mi fa:
«Consideralo un invito».
Sono furente, ma non perdo il controllo della situazione. La prima idea che mi viene in mente è quella di pareggiare i conti: esco saltando dalla finestra e mi porto dietro un folletto, così capisce che effetto fa. Ma poi mi rendo conto che è proprio quello che vogliono loro. E poi così non riuscirei a liberarmene, che invece è quello che voglio io. Allora penso: adesso gli afferro il cappello e glielo calo giù di colpo fino al collo, così li strozzo. Ma mi basta un’occhiata in giro per capire che sono troppi per poterli sopprimere singolarmente. E allora mi riciclo diplomatico, producendomi in un glorioso appello alla solidarietà che suona più o meno così:
«Ma io non posso aiutarvi, cercate di capirmi, ho i miei problemi, una vita con le sue esigenze, i suoi ritmi...». È inutile, la solidarietà non attacca: attorno non vedo che facce attonite, non indifferenti, ma di chi - insomma - stia aspettando qualcos’altro. A questo punto mi resta soltanto un’ultima carta da giocare: la pietà. Sono ancora seduto per terra quando dico:
«Perché proprio io?» Continuano a guardarmi con un’aria intontita, distante. Ma in quel momento capisco: non c’è nessun motivo per cui mi hanno scelto. Sfortuna pura; magari si sono stufati di strattonare gente per strada e oramai procedono a casaccio. Forse la mia faccia che parla da sola e te la dice lunga. Scegliete voi. Ma io non cedo. Torno a slanciarmi verso il ripostiglio e ci casco dentro.
Sono di nuovo nel mondo. E qui potrei dilungarmi sulla sensazione appiccicosa di essere braccato, sullo sforzo vibrante di camminare al centro della strada (ovviamente mi capitavano tutte strade strette o piene d’auto) e di andare verso posti affollati (erano le due della notte); ma dirò soltanto che sono rimasto per un pezzo aggrappato a quel lampione, mentre decine di manine spuntavano da un cassonetto e mi afferravano le caviglie tirandomi all’interno. Alla fine ho mollato, smettendo così di assomigliare a una bandiera inamidata in una giornata senza vento.
Ancora la casetta, i folletti, io seduto per terra. Non c’è verso di sfuggirgli: mi arrendo. Ma non è questa l’impressione che voglio dare. E allora in un gesto solo piego la faccia da un lato, guardo dritto negli occhi un folletto che si trova sul lato opposto – cosicché il mio sguardo risulta traverso –, socchiudo appena le labbra e dico:
«Supponiamo che decida di aiutarvi». Pausa. Inarco un sopracciglio e l’altro, in corrispondenza, si abbassa. Sono diventato una lezione di geometria. «Che cosa ci guadagno?»
Visto che sono con le spalle al muro, tanto vale spuntarci tutto il possibile. Chissà che le cose, una volta tanto, non si mettano bene anche per me. Il folletto annuisce con aria seria. Poi dice: «andiamo» e si avvia verso la porta.
Mi accompagna in giro per Follettandia, mi fa vedere il bosco (e tutte le amache stese fra gli alberi), i luoghi dove i folletti lavorano, giocano, dormono (quando non stanno sulle amache). Un fiumicello taglia la città in due, ed è così basso che non è stato neanche necessario costruire dei ponti: i folletti infatti lo attraversano a piedi (bagnandosi un po’ le scarpe che però si asciugano subito. A Follettandia c’è sempre il sole).
Scendendo il corso del fiume, giungiamo al lago. C’è una lunga fila di casette a ridosso della sponda sulla quale ci troviamo. Provo senza successo a spingere lo sguardo fino all’altra riva. Follettandia è enorme, sembra non finire mai. Rimango un po’ in silenzio a guardare il paesaggio. Poi chiedo:
«Cosa c’è dall’altra parte?»
«La ferrovia» mi risponde. «Abbiamo un treno che parte dalla...». Trattiene il respiro per un secondo. «...dalla sommità di quella montagna (la indica) e giunge fino al vostro mondo».
Tace. Compie quasi una torsione completa su se stesso ed abbraccia con lo sguardo l’intero panorama. Poi allarga le braccia e dice:
«Potrai tornare a Follettandia tutte le volte che vorrai». Ecco la sua offerta. Gli sembra ragionevole, glielo leggo in faccia. E allora accetto (dico proprio: «accetto», continuando a fare finta di aver scelto solo perché il compenso pattuito mi conviene).
Così torniamo alla casetta, e le ultime delucidazioni che ricevo – sempre in coro – dai folletti mi fanno quadrare tutto: in pratica stiamo cercando un uomo che due soli folletti hanno visto una volta sola, attraverso il finestrino del treno con il quale il fuggiasco raggiungeva il mondo, del quale dunque non sappiamo niente (se sia armato, se e quanto sia pericoloso, se sia un semplice luogotenente di qualcun altro). Sappiamo però – attenzione – che portava un lungo abito scuro su cui spiccava una spilla rotonda.
«Raffigura il mondo, con i paralleli e i meridionali». È la folletta della tisana, una dei due testimoni oculari. Tutti la guardano, compreso me. Lei scocca un’occhiata a destra e una a sinistra, poi abbassa lo sguardo su un libro che nel frattempo ha tirato fuori dalla tasca.
«Meridiani» dice, richiudendo il vocabolario piano, per non far sbattere le pagine. Per un po’ non parla più nessuno. È un’assurdità, penso io. No, è una pazzia. La sostanza non cambia.
Ma c’è un tempo per riflettere e un tempo per caricarsi folletti sulle spalle; siamo già davanti al ripostiglio aperto quando un altro folletto si avvicina e mi dice: «comunque, non siamo gnomi, siamo folletti». Perché mi dice questo? Mi ha letto nel pensiero, prima? Il sospetto prende corpo quando mi viene istintivamente voglia di rispondergli: “ma avete cappelli da gnomi”, al che prosegue: «l’iconografia irlandese con i cappelli a cilindro è suggestiva, ma fondamentalmente immaginaria». Resto basito per la delucidazione, dalla quale deduco che su di noi la sanno lunga. Intanto i due folletti, comodamente (per loro) seduti addosso a me, cominciano a pesare, e parecchio. Lui se ne accorge e conclude, con un tono che vorrebbe rassicurarci (ma che ovviamente non può che sortire l’effetto contrario):
«State attenti».
Peggio di così. Salto.


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