La diversità va in scena. Dialogo con Alina Narciso su intercultura e teatro


Alina Narciso si occupa di teatro da oltre vent’anni, cercando di avvicinare la cultura napoletana a quella sudamericana, soprattutto di provenienza afro. Già vincitrice di diversi premi teatrali sia in Italia sia all’estero, è la fondatrice e direttrice artistica de la Biennale internazionale di drammaturgia femminile “La scrittura della differenza” (che coinvolge 14 Paesi) e dirige la casa editrice Metec Alegre (www.metecalegre.com) che ha sede a Napoli. L’abbiamo incontrata, al telefono, pochi giorni fa.

Una nuova casa editrice che si occupa esclusivamente di teatro: una scelta audace, soprattutto di questi tempi.
E che si occupa esclusivamente di drammaturgia femminile, per di più! Almeno al momento; anche se speriamo che l’andamento prossimo del mercato digitale, sul quale puntiamo molto, ci permetta di ampliare gli orizzonti delle nostre collane. Però il progetto - a capo del quale c’è un giovane – Francesco Miccio che ne è il Responsabile Editoriale – è per ora essenzialmente una “Start-up”, anche se non nasce oggi, ma ben quattro anni fa, tra il 2010 e il 2011.
“Drammaturgia femminile”: che significa?
La drammaturgia femminile è il teatro scritto dalle donne, e mette in scena il punto di vista delle donne, che rappresentano, come si diceva una volta, “l’altra metà del cielo” e noi vorremmo…. anche della “scena”! Ciò non significa che i temi trattati siano quelli considerati “femminili” ma, al contrario, l’intera realtà contemporanea, e la realtà interessa tutti.
Qui si inserisce Malena, il Suo ultimo testo, peraltro vincitore della XIII edizione del Premio di scrittura femminile “Il Paese delle donne” nella sezione teatro.
Appena pubblicato in volume, sì. Si tratta di un testo semplice nella linea narrativa – un flusso di coscienza - che tuttavia rivela una certa complessità nell’uso delle lingua da parte dei personaggi e soprattutto è il frutto di un lungo lavoro di “integrazione” tra il testo scritto e la parte musicale (per la quale ho avuto la fortuna di collaborare, ancora una volta, con l’amico e musicista cubano Walfrido Domínguez); per questa ragione il libro è stato pubblicato con gli spartiti alla fine – come fosse un libretto d’opera – e stiamo pensando di realizzare un audiolibro.
I personaggi dunque dei suoi testi non parlano “la loro lingua”, ma “diverse lingue”?
In realtà ciascuno parla la propria, che però non è mai l’unica: ognuno di noi - la globalizzazione ha accelerato questo processo a dismisura - parla un idioma che attinge a tante lingue diverse (l’inglese, il francese, lo spagnolo…) e mescola le parole in modo ormai quasi inconsapevole e “automatico”. Così i personaggi di Malena (e un po’ di tutte le nostre pubblicazioni) usano parole, espressioni, citazioni da lingue diverse… possono anche non aver mai viaggiato all’estero, ma, senza rendersene conto, compiono un’operazione di sincretismo linguistico.
Quale storia si racconta in Malena?
La storia di Malena è quella di una donna che - per inclinazione personale, o per pressioni familiari e ambientali - si è chiusa in un “giardino d’inverno” e, dall’interno di questa sua clausura, ripercorre le tappe della sua esistenza (che, come per ognuno di noi, non sono mai solo quelle personali, ma anche quelle del contesto politico e sociale in cui si è vissuto). Nessun intento didascalico al riguardo: si parla ad esempio di Che Guevara, ma senza intenti agiografici, Che Guevara è parte importante della cultura della protagonista che è italo-argentina. In Malena, in particolare, c’è molto dell’Argentina; a partire dal nome (che è il titolo di un notissimo tango).
Come intende l’intercultura oggi?
Come l’ho sempre intesa: facendola. Nel 1996 - primo esperimento del genere a Napoli - misi in scena uno spettacolo con un attore africano: all’epoca non ce n’erano, quando si presentò alle mie selezioni raccoglieva pomodori a Villa Literno. «Voglio fare l’attore» mi disse. Gli diedi la formazione di base e andammo in scena: fu un grande successo. Molti furono d’altro canto i “perplessi” che obiettarono che la sua pronuncia/dizione era imprecisa; faceva parte del “gioco” anche quello, ovviamente: la pronuncia non poteva che essere imprecisa, essendo lui uno straniero! Si chiama Jacob Ibrahim, del Benin: oggi è un attore professionista; e poiché è ancora l’unico attore professionista di colore, ogni volta che c’è bisogno di un africano “vero”... chiamano lui.
Un ultimo saluto al lettore italiano… e un invito a leggere i libri Metec Alegre.
Io adoro Marquez, ma non si vive di solo Marquez! In Italia c’è una triplice scarsa attenzione alla letteratura sudamericana: primo, si dà pochissimo spazio ai contemporanei; secondo, lo spazio riservato al teatro è praticamente nullo; terzo, si può tranquillamente affermare che oggi nessun editore italiano abbia una collana di drammaturgia femminile. E ce n’è tanto bisogno: è un mondo ricchissimo e potente da scoprire e approfondire sempre più. I classici sono i classici: non si discute. Ma il teatro femminile contemporaneo è qui.
(«Pagina3», 24 luglio 2014)

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