Lui è un ispettore addetto al controllo di qualità nelle filiali sparse nel mondo della multinazionale di cui fa parte. Non ama particolarmente il suo lavoro, né lo odia: ormai è abituato tanto alla monotonia della sua vita in madrepatria quanto a quella delle continue “ristrutturazioni aziendali” a base di licenziamenti di massa e di delocalizzazioni. Questa ennesima missione all’estero non ha dunque niente di nuovo per lui: né i malumori dei colleghi che sanno di dover essere giudicati, né le difficoltà con la lingua (che non conosce) e i trasporti aerei. Nemmeno il suicidio di un dipendente - quasi sotto ai suoi occhi - lo turba più di tanto: per il suo rapporto al superiore si tratta di nient’altro che di un uomo in meno a libro-paga. Ma alla “centrale” non sembrano pensarla allo stesso modo quando gli chiedono - cosa quanto mai inconsueta - di rimanere sul posto a indagare sulla vicenda, che forse nasconde qualcosa di più grosso che un banale movente passionale. Oltretutto qualcosa sta cambiando anche per lui: da quando ha stretto maggiormente l’amicizia con Miriam, la collega addetta alle prenotazioni, sta cominciando - suo malgrado e fuori da ogni controllo - a guardare le cose in maniera diversa, nuova, forse più dolorosa...
Un racconto lungo scritto bene, pervaso di claustrofobia (dall’impossibilità di capire e lasciarsi capire nella propria lingua agli enormi capannoni dismessi e desolati) e di una tensione che cresce proporzionalmente alla presa di coscienza, da parte del protagonista, della profondità della vita e dell’essenza dell’uomo, da un lato; dell’insostenibilità (e del danno) del suo lavoro, dall’altro, apparentemente burocratico e inerte, ma a ben vedere, nel suo piccolo, velenoso e potenzialmente letale come quello di ogni rotellina del perverso ingranaggio aziendale. Un atto d’accusa a un sistema produttivo che bada solo ai dividendi e non alle vite che vengono macerate per essi; ma anche un “giallo” alla scoperta di un colpevole collettivo, celato dall’omertà, dalla fragilità e da una consapevolezza comune ormai assuefatta a quel sopruso legalizzato (e mortale) chiamato economia.
A. Beltrami, Regione oscura, ed. Fandango, 2014, pp. 160, euro 16.
(«Il Caffè», 18 luglio 2014)
Un racconto lungo scritto bene, pervaso di claustrofobia (dall’impossibilità di capire e lasciarsi capire nella propria lingua agli enormi capannoni dismessi e desolati) e di una tensione che cresce proporzionalmente alla presa di coscienza, da parte del protagonista, della profondità della vita e dell’essenza dell’uomo, da un lato; dell’insostenibilità (e del danno) del suo lavoro, dall’altro, apparentemente burocratico e inerte, ma a ben vedere, nel suo piccolo, velenoso e potenzialmente letale come quello di ogni rotellina del perverso ingranaggio aziendale. Un atto d’accusa a un sistema produttivo che bada solo ai dividendi e non alle vite che vengono macerate per essi; ma anche un “giallo” alla scoperta di un colpevole collettivo, celato dall’omertà, dalla fragilità e da una consapevolezza comune ormai assuefatta a quel sopruso legalizzato (e mortale) chiamato economia.
A. Beltrami, Regione oscura, ed. Fandango, 2014, pp. 160, euro 16.
(«Il Caffè», 18 luglio 2014)
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