La libraia di Orvieto

«Come un lupo, è l’istinto di sopravvivenza a spingermi talvolta verso altri umani, e non più in virtù di un amore innato, ma per studiarli e guardarmene». Nessuno può braccare un assassino meglio di un lupo, abituato a diffidare di ogni apparenza dopo aver a lungo studiato il comportamento degli uomini: lo sa bene Matilde Ferraris, protagonista del romanzo di Valentina Pattavina, La libraia di Orvieto (ed. Fanucci, 2010) la quale - coinvolta d’improvviso in un’indagine giornalistica su un caso di cronaca nera locale irrisolto da dieci anni - si troverà a scorgere indizi, interrogare testimoni, incasellare deduzioni fino a scoprire ciò che in cuor suo aveva sempre saputo, fin da piccola: che chi ha subìto il male è in grado di restituirne. Fino a cento volte tanto. Tra personaggi discutibili e un po’ inquietanti («Amelia, la proprietaria del bed&breakfast. Donna ruspante, d’altri tempi. Generosa e apprensiva. Ma legata a degli strani e sorpassati riti popolari e contadini»), storie dotte e raccapriccianti da osteria (come quelle del contadino Antonino Gorgone detto Galluzzo e del prete Guy Desnoyers) e scene comiche e imbarazzanti (come quella del libraio che cerca in tutti i modi di salvare la faccia di fronte alla ridicola presentazione di un libro di poesia dalle liriche insulse e incomprensibili; o come quella della cena con un tale che cerca di rendersi simpatico a tutti i costi, ottenendo ovviamente l’effetto contrario: «appartiene a una categoria umana che rifuggo come la peste: i barzellettieri [...] sarà meglio levargli il vino, l’andazzo può solo peggiorare»), la storia si snoda lineare fino al finale noir, il cui disvelamento apre le porte della comprensione, ma mai quelle della redenzione. Orvieto è solo sfiorata, pennellata in lontananza, sullo sfondo di un testo dagli esterni radi e scarni, intriso di esoterismo (I-Ching, chiaroveggenza, riti popolari, mitologie classiche), il cui vero protagonista - se è permesso il gioco di parole - è la protagonista: tratteggiata in abbondanza e nel dettaglio come una donna amante della propria solitudine (e libertà, e amarezza), tutt’altro che bonaria, brusca, che fa di tutto per evitare di innamorarsi; la quale non di meno fa amicizia con gran facilità e si commuove davanti al topolino che pur si è ingegnata a catturare (e che poi si affretta a liberare nel bosco, preoccupandosi per la sua sorte). La sua storia personale e la sua definizione mettono in ombra tutti gli altri, fino a rendere questo libro un racconto lungo, più che un romanzo, singolarmente (e piacevolmente) privo di cellulari e televisione. Un libro che ha avuto 3 ristampe in 3 mesi (da maggio ad agosto 2010), da leggere senza interruzioni in un pomeriggio di calma piatta. Cui ha fatto seguito La libraia di Orvieto. L’ultima eredità (2011).


V. Pattavina, La libraia di Orvieto, ed. Fanucci, 2010, pp. 245, euro 16.

(«Pagina3», 14 settembre 2011)

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