Fenicia, sogno di una stella a Nord-Ovest

Il poeta è un fingitore.
F. Pessoa
Poesia e filosofia. Ovvero: poesia come filosofia, come ricerca del vero, dell’autentico, del non-adulterato. Che questo riguardi la filosofia è cosa innegabile, su cui tutti sono d’accordo. Che ciò implichi il coinvolgimento del filosofo, ‘anima e corpo’, ragione, sentimento, sillogismo, ricordo e dolore, senza che nulla ne resti fuori, è cosa altrettanto innegabile, anche se meno popolare. Il vero filosofo è sempre anche poeta. In Fenicia, sogno di una stella a Nord-Ovest, raccolta di venti liriche, il filosofo, Giuseppe Limone, fattosi poeta, rivela se stesso, e proprio nell’atto dell’indagare il vero tramite la poesia. Il poeta non restituisce forme compatte o categorie prive di sbavature: egli “offre colori”, la cui fonte è certo il sole (come per il filosofo: qui è esplicito il richiamo a Platone), ma un sole rosso le cui visioni si danno “in faville”, roventi e sfuggevoli, difficili da afferrare e ancor più da trattenere. Egli plasma “gocce di fuoco al cuor schizzate”, sorelle di quelle ‘ragioni del cuore che la ragione non conosce’: né oggetti tangibili né semplici impressioni; ma forse per questo meno reali? (Cosa c’è di più reale dei palpiti del cuore? Il filosofo lo domandi agli amanti). Il poeta non aspira all’universale, ma alla pienezza del singolare. Egli non ambisce a racchiudere le cose in concetti, perché sa che il concetto non afferra che la ‘patina razionale’ delle cose; il poeta indica, evoca, richiama l’esperienza alla quale ha assistito. Il poeta non celebra la regola astratta che mette insieme cose diverse (come avviene nella concettualizzazione scientifica), ma canta l’unicità delle cose, di quegli eventi singoli cui ha partecipato. Se di universalità si può parlare, è l’universalità dell’invito senza confini a partecipare a un evento della realtà, non un’universalità categoriale. In questo il poeta è vicino a una certa filosofia che intende appunto il filosofare come uno stile di vita, la filosofia come un esercizio volto a liberarsi dalle categorie, che fanno sempre da paravento nei confronti della realtà: filosofare vuol dire, nel suo significato ultimo, divenire capaci di liberare i propri occhi dalla moltitudine di veli (concetti, categorie, definizioni) che li ricoprono, per andare incontro alla realtà così come essa si dà. E la realtà, si dà sempre e solo nel singolare: perché è evidente che le cose ‘in generale’ non esistono; sono i concetti a esistere in generale, non le cose. In questo senso, filosofia non è “elevarsi al di sopra delle cose”, che è già un’astrazione mentale: filosofia è invece essere capaci di avere a che fare genuinamente col particolare, e ciò lo si può fare solo se ci si libera dalla tendenza ad astrarre, a trattare tutto come se fosse un esemplare di una certa categoria. Le cose non sono “esemplari”: le cose sono le cose. Questo vuole dirci il poeta. La sua non è una critica al metodo della scienza moderna e tanto meno ai suoi risultati: è piuttosto una critica alla pretesa di trattare ogni cosa come se fosse un oggetto di indagine scientifica, come se non ci fosse nient’altro da ‘vedere’ e come se la scienza offrisse una conoscenza esaustiva della realtà. A ben vedere, quella del poeta non è nemmeno una ‘critica’ in senso proprio: semplicemente, egli ha visto qualcosa oltre la scorza. E non può tacerne. L’incontro con le cose è sempre personale, soggettivo e coinvolge la persona tutta, non solo la sua mente. La ricerca del poeta – che non di meno è ricerca della ‘parola’, quella entità che si situa a metà strada tra i concetti e le cose – è ricerca di quella ‘parola del singolare’ che non esiste, e che andrebbe coniata, creata ogni volta di nuovo per ogni singola manifestazione di ogni singola cosa, una parola nuova per ogni aspetto sempre nuovo della realtà, quella parola ineffabile che non si può dire perché è la cosa stessa; mentre le parole, quelle che ordinariamente si riferiscono soltanto a categorie di cose, in generale, permettono di riferirsi alle cose, di trattarle, di pensare, ma non sono la cosa. La poesia è l’espressione imperfetta e anelante di quella parola impronunciabile, che la cosa è, che è nell’esperienza del poeta e che il poeta presenta. In breve, l’Essere – nella sua eterna strutturale connaturata singolarità – eccede sempre il Pensare, con la sua intrinseca tendenza a generalizzare, ad astrarre, a categorizzare. L’Essere eccede il Pensare: in realtà, tutto il parlare del poeta è il parlare di questo; non degli errori della razionalità ma dei suoi limiti, dell’impossibilità di accontentarsi della sola ragione, dell’accontentarsi come errore di metodo, che taglia fuori l’uomo da ogni relazione vitale con tutto ciò che lo circonda. D’altro canto il poeta deve – in un altro senso – accontentarsi, perché sa che le sue ‘illuminazioni’ hanno vita breve: tuttavia non vi rinuncia, anche se sa che sulla carta ne rimarrà ben poco. Ciò non gli impedisce di essere “uno strano incantatore” che rapisce “stupiti ammiratori”, proprio perché il suo incanto non è mera finzione di pirotecnica retorica, bensì la visione stessa della verità, nel suo ‘andare oltre’ la comprensione di chi la guarda, nel suo essere sempre di più e al di là di ogni pensare. Limone non elude la domanda sull’Essere, anzi in questo suo Fenicia – per rimanere nell’ambito della metafora ignea delineata inizialmente – la fa esplodere, in tutta la sua ampiezza: meraviglia delle meraviglie, l’Essere è, oltre ogni possibile dire da parte dell’uomo. Quella parola impronunciabile, e tanto più vera, è quella che il poeta insegue per tutta la vita: la sua intera opera non è che la parafrasi di quell’unica, incandescente parola. Quando l’Essere si mostra, l’uomo non ne coglie che poche faville. “Tutto si svela, e poi rifà quesito”. («Secretum» online, ISSN 1970-7754, maggio 2009)

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